Le Médiéviste et l’ordinateur
Le Médiéviste et l’ordinateurHistoire médiévale, informatique et nouvelles technologies
n° 41 (Hiver 2002) : L’apport cognitif

Scrittura ed immagini : un’ipotesi di restauro virtuale*

Edoardo Ferrarini
edoardo.ferrarini@univr.it
Eugenio Staltari
estaltari@yahoo.it
Università degli Studi di Verona

(seconde partie de l'article – revenir au début)

2. Le fasi operative del restauro virtuale (Eugenio Staltari)

E’ necessaria, innanzitutto, una premessa di carattere tecnico sul software da noi utilizzato per le operazioni in seguito descritte. Non esistendo software specifici per le finalità che ci siamo proposti, è stato necessario usare di volta in volta programmi che, nelle loro funzioni, si adattassero alla condizione del manoscritto, al tipo di corruttela ed alle caratteristiche che esso presentava, cercando di adattare al nostro fine quello che il mercato informatico offriva.

Analizziamo ora nel dettaglio le fasi del restauro virtuale, iniziando dall’acquisizione digitale. Poiché è risaputo che ogni riproduzione che implichi il passaggio da originale a copia, o da copia a copia di manoscritto peggiora o, comunque, altera la qualità cromatica dell’immagine, ne consegue che minore è il numero dei passaggi nella rielaborazione della stessa, maggiore sarà la fedeltà cromatica che otterremo. Per il raggiungimento di questo scopo, l’acquisizione dei manoscritti, oggetto del nostro studio, è stata effettuata attraverso una macchina fotografica digitale di tecnologia Canon con un sensore d’immagine di 3,34 megapixel, ottenendo file con una risoluzione di 2048 per 1536 pixel, di dimensione pari a 2100 Kb. Le fotografie effettuate con tale strumento, inoltre, sono allocate in una scheda di memoria interna alla fotocamera e si possono così trasferire direttamente nel nostro computer attraverso un apposito software, così come sono state acquisite dall’originale. La recente introduzione delle porte di tipo USB ha reso molto più semplice questa operazione. In tal modo si eliminano molti passaggi (sviluppo, stampa, acquisizione tramite scanner…) che ne altererebbero le qualità originarie.

L’immagine può, così, essere ripulita e preparata per la ricostruzione. Per effettuare quella che noi abbiamo definito pulitura virtuale, non si può esclusivamente lavorare sulla copia del codice. E’ necessario conoscere ed aver visto quali siano i colori originari del documento su cui si interviene e, tenendo sempre come riferimento l’originale osservato alla luce solare, si può quindi procedere alle correzioni necessarie.

Molto spesso, inoltre, anche la riproduzione fotografica digitale aggiunge al manoscritto componenti cromatiche dominanti (comune nei codici miniati è, ad esempio, la componente rossa), che alterano la qualità dell’immagine. Sarà, quindi, necessario intervenire eliminando tale componente, mettere a fuoco il manoscritto, regolarne la luminosità e la saturazione: il comando « fuoco » rielabora la messa a fuoco dell’immagine accentuando e rendendo più evidenti i contorni ; il comando «luminosità» rende, ovviamente, più chiari supporto e scrittura; il comando « saturazione », infine, regola l’intensità dei colori. Ciascuna di queste operazioni può essere effettuata singolarmente. I programmi Adobe Photo-shop e Corel Photo-paint, da noi utilizzati, permettono anche di unificare questo intervento per mezzo del comando « curve » (figura 1).

Un chiaro esempio di tale procedura si può osservare nella pulitura virtuale da noi effettuata della riproduzione del capitolo 42 della Regula Sancti Benedicti, tratto da un codice manoscritto del xii secolo, conservato presso la Biblioteca Civica di Verona (ms. n. 1356 in Giuseppe Biadego, Catalogo descrittivo dei manoscritti della Biblioteca comunale di Verona, Verona 1892) e che, grazie alla disponibilità del direttore della biblioteca, il dott. Ennio Sandal, abbiamo potuto fotografare (figure 2 e 3).

Figura 2

Figura 3

Tengo, inoltre, a precisare che le immagini qui riprodotte non hanno, ovviamente, la definizione e la fedeltà che normalmente hanno sui monitor su cui siamo soliti lavorare, ma possono fornire, comunque, un’idea indicativa delle operazioni effettuate.

Una volta ottenuta una certa fedeltà della copia digitale a quella originale, dalla fase di pulitura si può passare alla fase successiva, ossia quella della ricostruzione cromatica. Sarà necessario esaminare uno o più esempi che tengano in considerazione le varie tipologie di corruttela, cercando così di coprire un ampio numero di casistiche. Si è ritenuto opportuno, pertanto, analizzare separatamente due componenti : il testo e le immagini. Per ciascuna di queste due componenti si ipotizzeranno uno o più metodi di ricostruzione.

Figura 4

Figura 5

L’immagine qui riprodotta (figura 4) appartiene ad un frammento del manoscritto sopra citato. Come si vede, la parola aliquid si presenta in parte erasa. Aliquid, infatti, è stato sostituito da un’altra mano con aliud e ciò è dimostrato dall’analisi del colore dell’inchiostro. Sempre attraverso lo strumento curve, posso aumentare la saturazione (figura 5).

Tale operazione mi permette di vedere più chiaramente i pixel, ovvero i punti componenti l’immagine. Al momento non mi preoccupo di restituire i colori originali. Ciò che mi interessa è, invece, rendere più evidente quanto prima, ad occhio nudo, non si vedeva con chiarezza, ovvero il quid eraso. Si può quindi procedere al ripristino delle lettere mancanti, attingendo, per così dire, alla mano stessa di chi ha vergato il manoscritto, ossia copiando da altri punti del manoscritto le lettere mancanti e sovrapponendole ai pochi pixel rimasti di quelle erase (figura 6). Essi, infatti, sono sufficienti per riconoscere la parola. La correttezza dell’opera zione sarà confermata dall’esatta sovrapposizione sui pochi punti visibili dei tratti di inchiostro virtualmente incollato. Solo la sovrapposizione di queste lettere, infatti, accontenta in modo preciso le tracce d’inchiostro rimaste.

Figura 6

Figura 7

In un altro caso, sempre tratto dal manoscritto n. 1356 della Biblioteca Civica di Verona, la parola tamen qui riprodotta non è ad occhio nudo visibile (figura 7). Poiché la macchina fotografica digitale ha ingrandito di circa quattro volte le dimensioni reali del manoscritto, si possono intravedere impronte della « a » nei punti in cui lo strumento di scrittura ha cambiato direzione o si è allontanato dal foglio, mentre la « e » e la « n » risultano essere molto più evidenti (figura 8). Il confronto diretto con un altro tamen, appartenente al medesimo codice, non lascia più dubbi. Si può, quindi, sulla base di quanto detto, passare alla ricostruzione della parola secondo le fasi precedentemente illustrate (figura 9).

Figura 8

Figure 9

Consideriamo ora un esempio relativo alla ricostruzione non tanto della scrittura, quanto di un particolare di una miniatura del codice 16r, conservato a Londra presso la British Library (figura 10). In esso non vi sono parti mancanti su cui intervenire con operazioni di reintegro : il problema, infatti, coinvolge il solo aspetto cromatico. La naturale vivacità del minio e degli altri colori risulta essere attutita, probabilmente, da polvere depositata sull’originale che, nel tempo, ha creato una patina grigia. In realtà, a noi non interessa capire la natura di questa alterazione cromatica; a noi, piuttosto, interessa restituire alla miniatura i colori originali, eliminando quel filtro grigio interpostosi tra la miniatura e l’osservatore (O)
(figure 11 e 12).   

Figura 10 Figura 13


Figura 11  


Figura 12

Il problema non sussisterebbe se conoscessimo il suo valore cromatico. Se potessi dare, infatti, una quantità, un valore, a questa componente grigia, sarebbe sufficiente in seguito sottrarla a tutta la miniatura per ottenere i colori originari. Ciò è impossibile. E’ possibile, però, arrivare a dare un valore ad uno dei colori della miniatura. Esiste, infatti, uno strumento chiamato « codice pantonario », che cataloga, senza margine d’errore, tutti i colori e le varietà di sfumature. Conoscendo, perciò, il numero di codice pantonario del minio (qui indicato con il parametro « M »), e conoscendo, attraverso l’analisi dell’immagine digitalizzata, il numero di codice pantonario del minio unito a tale componente grigia (« M + F »), sarà sufficiente sottrarre quantità di grigio, fino a far coincidere numericamente i due valori pantonari. Questa medesima operazione si effettuerà sull’intera pagina del codice, sottraendo così ad ogni colore componente la miniatura la stessa quantità di grigio. Otterremo, così, i colori originari.

Si tenga presente, però, che il minio è formato approssimativamente dall’80% di tetrossido di tripiombo (Pb3O4) e dal 20% di ossido di piombo (PbO). Con tali quantità si ottiene un minio di color rosso. Diminuendo la quantità di ossido di piombo, il minio, logicamente, cambierà colore fino a raggiungere sfumature di colore arancione. Chiaramente il numero del codice pantonario corrispondente alle possibili soluzioni (per esempio 90% Pb3O4 + 10 % PbO) varierà a seconda delle quantità delle due componenti. C’è da aggiungere, però, che se nel nostro caso il campione di minio anziché rosso fosse stato arancione, sarebbe stato necessario aggiungere un filtro blu per ottenere il rosso a noi visibile nella miniatura antecedente al restauro. Essendo il filtro grigio, se il minio fosse stato originariamente arancione, avremmo avuto nel tempo una risultante marrone, e non rossa. Quindi, tolta una costante minima d’errore, i colori ottenuti dovrebbero avere una percentuale d’errore molto limitata (figura 13).


Figura 14

Degno di nota è anche il capolettera del codice membranaceo R 4.8, conservato presso la Biblioteca Estense di Modena (figura 14). Esso è stato da noi trattato come un territorio di confine in quanto, pur essendo di per sé un’immagine, è anche segno di scrittura. Mi riferisco alla « I » di Io dico seguitando, il noto incipit del canto VIII dell’Inferno dantesco. Se la leggibilità del testo è, nonostante tutto evidente, alcuni particolari dell’immagine si presentano, invece, poco chiari. Mi riferisco alle foglie e gli ornamenti della « I ». Abbiamo cercato, quindi, nella ricostruzione, di tener conto del principio dell’usus scribendi. Se, infatti, il capolettera di tutti i canti dell’Inferno, oggetto del nostro restauro, presenta le medesime caratteristiche, molto probabilmente anche la « I » del capolettera di questo canto aveva i medesimi abbellimenti. E’ stato così ancora una volta possibile ricostruire l’immagine, trovando conferma nei pochi pixel superstiti (figura 15).

Figura 15

Con un metodo analogo si è passati al restauro di un’altra miniatura, appartenente al medesimo codice, che rappresenta Dante smarrito nella selva oscura. E’ irreale, però, l’oscurità attuale della miniatura (figura 16). Poiché non si tratta di capolettera, il procedimento questa volta, interessa solo l’aspetto figurativo (figura 17).

Figura 16 Figura 17

L’ultima fase, che passo ora brevemente ad illustrare, riguarda l’archiviazione elettronica. Essa deve essere effettuata in due distinti momenti.

Una prima archiviazione deve conservare al meglio le immagini originale del codice e quelle del successivo restauro, per permettere di poter in ogni momento controllare e ripercorrere tutte le tappe della ricostruzione virtuale, nonché di fermare in ambiente digitale il processo di degrado. Per ottenere quanto detto, sarà necessario, quindi, che il salvataggio sia ad altissima risoluzione.

Un secondo archivio, invece, prevedrà un salvataggio a bassa risoluzione per permettere al fruitore di caricare in tempi più rapidi e ragionevoli le immagini sul personal computer a fini didattici o di ricerca. Una ragionevole compressione dell’immagine, senza pregiudicare oltre un certo limite la resa a monitor, renderà possibile l’inserimento in banche dati su CD-rom o DVD.

Con l’archiviazione elettronica si conclude l’operazione del restauro virtuale, nella metodologia da noi proposta.

 

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