Le Médiéviste et l’ordinateur
Le Médiéviste et l’ordinateurHistoire médiévale, informatique et nouvelles technologies
n° 41 (Hiver 2002) : L’apport cognitif

Scrittura ed immagini : un’ipotesi di restauro virtuale *

Edoardo Ferrarini
edoardo.ferrarini@univr.it
Eugenio Staltari
estaltari@yahoo.it
Università degli Studi di Verona

Si tratta dell’intervento, rivisto ed integrato dagli autori per la pubblicazione, tenuto al IX Incontro di Informatica Umanistica (Strumenti informatici per l’elaborazione di immagini nelle discipline storiche, filologiche e letterarie), organizzato dalla Fondazione « Ezio Franceschini» di Firenze e dall’Università degli Studi di Verona, e tenutosi a Verona dal 4 al 5 dicembre 2000 ».

1. Principi e metodologia del restauro virtuale (Edoardo Ferrarini)

La nozione di « restauro virtuale », nonostante la sua introduzione sia abbastanza recente, non è priva di ambiguità d’uso e di significato. Nata nel campo della conservazione dei beni culturali, essa è andata progressivamente emancipandosi, allargando l’ambito della sua applicazione ed arrivando a lambire anche gli studi linguistici e letterari ; nonostante ciò, il termine « restauro virtuale », anche nella sua variante di « restauro elettronico », continua ad indicare semplicemente il mezzo tecnico adoperato piuttosto che una chiara istanza metodologica [1]. In tempi recenti, c’è chi ne ha proposto seriamente l’abbandono, a favore di definizioni più esaurienti, ma ancora con un buon grado di indeterminatezza, come, ad esempio, quella un po’ fumosa di « ripristino iconologico digitale » [2].

Partendo da interessi di studio e di ricerca nell’ambito della letteratura latina medievale e confrontandoci quotidianamente con le nuove tecnologie informatiche e della comunicazione, abbiamo incontrato il problema teorico e metodologico del restauro dei codici manoscritti, sia al fine dell’utilizzo didattico delle immagini così ottenute, sia come supporto all’attività di ricerca e di critica del testo. Questo è avvenuto all’interno del progetto : « Multimedialità ed interattività nella didattica della letteratura mediolatina », in corso di svolgimento presso il Dipartimento di Linguistica, Letteratura e Scienze della Comunicazione dell’Università di Verona, e sotto la direzione scientifica del prof. Antonio De Prisco. Abbiamo cercato, insomma, di chiarire, in primo luogo a noi stessi, la funzione, i vantaggi e i limiti, ma soprattutto il metodo del restauro virtuale quando questo si aggiunge allo strumentario più tradizionale della filologia mediolatina [3]. Si tratta di un tentativo, seppure modesto, di dettare le regole a partire dalla specificità dell’indagine filologica, di rilasciare, per così dire, al restauro virtuale un « permesso di soggiorno » nel nostro settore scientifico-disciplinare.

Dopo una breve rassegna storica delle tappe che lo hanno gradualmente imposto, illustreremo la nostra ipotesi di restauro virtuale relativa a documenti di epoca medievale, corredandola, in un terzo momento, di alcuni esempi concreti della metodologia adottata e dei risultati che si possono raggiungere.

Nonostante le importanti e quasi profetiche esperienze degli anni Quaranta e Cinquanta (dalla macchina di Von Neumann al sistema di archiviazione di Bush), è solo col decennio successivo che è possibile parlare di era digitale [4] ; nel 1962 i francesi coniano il termine informatique (composto di information e automatique) e le potenzialità che viene mostrando il computer sollecitano nuove applicazioni non solo nel campo matematico e scientifico, ma anche in quello delle scienze umane: senza brusche accelerate, tuttavia. Come in ogni altra impresa, c’era da vincere l’inerzia iniziale. In questo contesto internazionale, nel 1963 esce Teoria del restauro, il notissimo e, per molti aspetti, insuperato manuale del linceo Cesare Brandi [5], vera pietra miliare e riferimento teorico imprescindibile della moderna metodologia per la conservazione dei beni culturali; in esso non v’è spazio alcuno per il restauro virtuale, per cui si può ben dire che il Brandi si pone al di qua dell’era digitale, terminus post quem maturano le prime esperienze di applicazione nell’arte del « calcolatore » (come allora veniva detto il computer, con un calco dall’inglese da noi ormai in disuso). Vari Enti di ricerca, Istituti e Laboratori di restauro si impegnarono in questa nuova prospettiva, oggi come allora gravosa anche dal punto di vista delle risorse finanziarie da impiegare, nel mentre l’arrivo del personal computer, all’inizio degli anni Ottanta, e poi dell’home computer inaugurarono quella stagione di ininterrotti progressi tecnici e di diffusa euforia nella quale ancora oggi ci troviamo. Il primo punto della situazione fu fatto in occasione delle Giornate di studio fiorentine organizzate nell’82, dal tema Metodo e scienza: operatività e ricerca nel restauro [6] ; in quell’occasione, in particolare, furono portati all’attenzione della comunità scientifica i risultati straordinari delle ricerche dell’Istituto Guido Donegani di Novara, che aveva usato apparecchiature digitali per sofisticate analisi spettrografiche e gammagrafiche sulle formelle della Porta del Paradiso del Ghiberti [7], e gli esiti altrettanto eccezionali dell’elaborazione elettronica di forme geometriche e moduli strutturali, compiuta all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze sulle architetture di Brunelleschi e le pitture di Piero della Francesca [8]. Da queste prime indagini sperimentali emergeva: innanzitutto, l’entusiasmo, un po’ scomposto a dire il vero, nei confronti dei processi di automazione, caratteristico di questa fase di espansione dell’informatica, poi, l’accento posto sulle capacità versatili di catalogazione ed archiviazione delle informazioni, nonché lo stupore (oggi vinto dall’abitudine) per la possibilità di richiamare, modificare, aggiornare e trasformare i dati registrati su supporto magnetico e, in generale, dunque, la valorizzazione dell’interattività, allora romanticamente definita « modalità colloquiale » [9]. Fin da subito, inoltre, apparve cruciale l’attenzione allo sviluppo dei dispositivi o unità di output, come monitor e stampanti, ma soprattutto a quelli di input, per la digitalizzazione dell’immagine dell’opera d’arte ed il suo trasferimento su supporto elettronico ; si parlava e si scriveva allora di « organi di ingresso » e « organi di uscita » [10], sulla base di una diffusa e davvero singolare concezione antropomorfica, che ha attribuito al computer persino memoria e linguaggio. Gli studi e le realizzazioni pratiche di due teorici e maestri del restauro di grande spessore, quali Umberto Baldini [11] ed Ornella Casazza [12], aumentarono l’interesse dei critici e spostarono gradualmente l’attenzione dalle varie tipologie d’intervento e di uso del computer nell’ambito della conservazione al fatto che l’operazione stessa del restauro potesse essere fatta a computer, sull’immagine digitalizzata. Nel 1985, nel suo importante volume Il restauro dei dipinti e delle sculture lignee [13], la Perusini, trattando dell’« impiego del calcolatore », richiama non solo l’utilità del computer per la catalogazione dei beni culturali, come pure per la determinazione dello stato di conservazione delle opere d’arte, ma anche, e per la prima volta in modo così lucido ed esplicito, il suo intervento « per operazioni ritenute generalmente legate alla sensibilità artistica del restauratore, quali la reintegrazione pittorica » [14]. La via era aperta e non si sarebbe atteso molto prima di dare un nome all’operazione descritta dalla studiosa : « restauro virtuale ».

Poca favilla gran fiamma seconda [15]. Nell’ultimo decennio, abbiamo assistito alla rapida diffusione di questo nuovo concetto di restauro, al suo progressivo ampliarsi a tutto il settore dei beni culturali (dalle opere pittoriche alle sculture, dall’architettura alle arti minori) [16], e, più di recente, stiamo costatando la sua facile, e solo apparentemente poco problematica, esportazione ad altri campi del sapere. Avvertiamo, però, contemporaneamente il fatto che a quest’espansione non si è affiancato sinora il necessario approfondimento teorico e che non è stata elaborata, a tutt’oggi, una definizione univoca dello statuto delle operazioni legate al restauro virtuale. Si ha l’impressione, infatti, che la stessa metodologia del restauro tradizionale possa continuare ad essere di riferimento, una volta mutato, in modo semplicistico, l’oggetto da quello reale ad uno virtuale (ossia l’immagine digitalizzata del documento artistico) ; non sono state ancora ridimensionate le opposte opinioni di chi considera incautamente il restauro virtuale come del tutto privo dei vincoli e dei limiti di quello materiale, e di chi, viceversa, si oppone con veemenza all’idea di sostituire la sensibilità artistica e la pratica artigianale del restauratore con le operazioni, falsamente credute automatiche, del « restauro elettronico ».

Lungi dal voler fornire delle soluzioni e delle risposte ultimative, abbiamo abbandonato l’idea d’intraprendere percorsi che ci avrebbero portato troppo lontano, e ci siamo limitati ad abbozzare alcune premesse ed osservazioni teoriche e metodologiche per il restauro virtuale di codici manoscritti d’epoca medievale: parleremo di quelli che sono i principi non prescindibili che devono, a nostro avviso, guidare quest’operazione, tracceremo il profilo di colui che dev’esserne l’autore e soffermeremo la nostra attenzione sul concetto chiave di leggibilità, provando, inoltre, una scansione in fasi sequenziali della nostra proposta.

I principi fondamentali del restauro virtuale sono : la riconoscibilità, la reversibilità ed il minimo intervento. Essi sono mutuati dal restauro tradizionale, ma hanno implicazioni in parte diverse. La riconoscibilità è il principio in base al quale ogni intervento di ripristino deve essere distinguibile dalla parte originale del documento, così com’è nello stato attuale di degrado; ciò per non consentire una lettura falsa dell’opera, attraverso l’assimilazione indebita delle parti reintegrate a quelle originali [17]. Il restauro virtuale non solo rispetta questo principio, ma riesce anche ad ovviare al problema opposto di non recare comunque un pregiudizio alla lettura integrale dell’opera: bisogna, infatti, rifiutare tanto le integrazioni di fantasia e gli interventi pesanti delle vecchie scuole di restauro, quanto l’esasperazione troppo zelante del principio di riconoscibilità che ha trasformato spesso le opere d’arte in un insieme di pezze e ritagli, in cui è persa per sempre la possibilità di una lettura unitaria e godibile dal punto di vista estetico dell’opera stessa. Il restauro virtuale, che interviene sull’immagine digitalizzata del manoscritto, non solo lo ricostruisce in modo unitario, ma anche, attraverso la cosiddetta « memoria di percorso » delle applicazioni informatiche utilizzate, rende in ogni momento riconoscibili gli interventi eseguiti dall’operatore; non solo lo stato attuale di conservazione resta perfettamente inalterato, com’è ovvio, nel manoscritto originale, ma la stessa storia del suo degrado e degli interventi di restauro successivi può essere documentata nel tempo. È questa medesima « memoria di percorso », inoltre, che rendendo le integrazioni riconoscibili ne stabilisce anche la reversibilità, accogliendo il secondo principio che abbiamo precedentemente introdotto. Ogni intervento di restauro deve, infatti, poter essere rimosso, sia perché (negli interventi tradizionali) il materiale utilizzato potrebbe in seguito alterarsi e danneggiare l’originale, sia perché potrebbero essere scoperti, nel tempo, materiali di resa migliore [18]. La caduta, in ambiente virtuale, di queste motivazioni non porta con sé la inattualità del principio di reversibilità, che resta valido, ad esempio, nel caso che gli interventi di restauro fatti su un codice si rivelino inaccettabili in seguito all’evoluzione delle teorie del restauro e delle sensibilità critiche successive e che se ne renda, quindi, necessaria a distanza di tempo la rimozione. Il terzo principio, che abbiamo definito del « minimo intervento », obbliga il restauratore a limitare il più possibile la sua opera di ripristino, evitando gli interventi più pesanti e spesso fantasiosi e rispettando, in generale, le tracce visibili della storia del manufatto stesso (come, nel caso di un codice, glosse, aggiunte marginali, correzioni di altra mano, eccetera) [19]. Cade del tutto, al contrario, il principio di compatibilità, che prevede, nel restauro materiale, l’uso di sostanze che non rechino danno fisico o estetico all’originale [20]. In conclusione, sbagliano quanti ritengono che il restauro virtuale possa avvenire nella massima libertà di azione e senza vincoli e fanno, magari, di questa caratteristica il suo unico statuto: riconoscibilità, reversibilità e minimo intervento, seppure con implicazioni diverse rispetto a quelle del restauro materiale, restano comunque presupposti teorici e regole pratiche assolutamente irrinunciabili.

Siamo così giunti al problema, tutt’altro che peregrino, dell’autore del restauro elettronico, ossia del profilo e delle competenze da richiedere a chi concretamente eseguirà il ripristino digitale. Sono del tutto ingiustificate le paure di chi vede profilarsi una figura di tecnico in un ruolo di competizione con il restauratore tradizionale, e sono senza motivazione le accuse rivolte al computer di essere una sorta di « macchina per restaurare », destinata a rendere marginali, o forse addirittura superflue, l’abilità e l’esperienza umane. Al di là del fatto che una tale riduzione del computer a procedimenti di automatismo rivela una concezione superata dell’informatica, legata agli irrazionali entusiasmi tipici degli anni Settanta e Ottanta (in un altro campo, se ci è permesso il confronto, si è registrato negli stessi anni il tentativo fallito di far entrare la televisione a circuito chiuso nelle scuole italiane, salutandola come la « macchina per insegnare » che avrebbe ridotto di molto l’organico degli insegnanti) [21], il restauro virtuale non ha nulla di meccanico e di automatico, non potendo prescindere affatto dalle capacità tecniche, dalle abilità operative, dalle conoscenze intellettuali e, infine, dal gusto estetico del restauratore. La particolare caratteristica della pagina di codice medievale, inoltre, con la presenza abbinata di testo e immagine, di cromie e di segni di scrittura, richiede che su di essa si eserciti non solo la competenza del restauratore tradizionale, opportunamente affiancato da esperti della fotografia e del trattamento digitale delle immagini, ma anche quella del filologo stesso, in un’impresa collettiva volta a migliorare la lettura del messaggio iconografico e di quello testuale, importante aiuto alla ricerca artistica, ma anche a quella storica e filologica [22]. Se è opportuno invitare il restauratore ad impadronirsi di alcune conoscenze tecnologiche che possono aiutare il suo compito, un analogo appello va rivolto anche agli studiosi di critica del testo, rappresentando altresì questa situazione un’occasione preziosa per abbattere quella barriera artificiale che ha per troppo tempo tenute distinte le attività scientifico-tecnologiche da un lato e quelle artistico-letterarie dall’altro. Spesso si richiama, a questo proposito, la figura di artista-scienziato di Leonardo da Vinci e non v’è dubbio che porre il restauro virtuale sotto il suo laico patrocinio abbia un certo fascino.

In questo modo, siamo arrivati a concentrare la nostra attenzione sulla caratteristica peculiare di quel bene culturale che è il codice manoscritto d’epoca medievale: la presenza affiancata di testo e immagine [23]. In ultima analisi, scrittura e miniatura si possono ridurre a segni, tracce d’inchiostro e di colore sulla pergamena, e in questo senso non c’è dubbio che possono essere trattati, nel restauro, in modo tecnicamente simile, ossia come tratti pittorici. E però, non sfugge certo che l’immagine, in quanto rappresentazione figurativa, fissa direttamente sul supporto il contenuto che intende esprimere, mentre il segno di scrittura, in quanto grafema, è segno convenzionale che richiede una ben precisa interpretazione [24]; in altre parole, nell’immagine è prevalente l’aspetto figurativo o estetico, laddove, invece, nella scrittura, esito di un lungo processo di astrazione, è predominante l’aspetto simbolico. Se allora il restauro è definibile come la serie delle operazioni tese al miglioramento della leggibilità di un opera artistica o di un bene culturale, ne emerge con chiarezza che in una pagina manoscritta d’epoca medievale sono, in genere, compresenti due diverse istanze di leggibilità, cui bisogna diversamente corrispondere, quella delle immagini e quella delle linee di scrittura, la prima che richiede una lettura migliore affidata in gran parte all’integrazione degli elementi figurativi, la seconda, invece, che fa appello al ripristino della leggibilità, in senso più proprio, come capacità di tradurre i segni grafici in pensiero: si tratta, infatti, di rendere la pagina più accessibile all’operazione di decodifica della lettura. La distinzione appare ancora più chiaramente, se consideriamo, ad esempio, un terreno di confine quale quello del capolettera, che, pur mantenendo il carattere di segno scritto, affida in parte preponderante il suo messaggio all’aspetto estetico. In ogni momento, dunque, l’intervento del restauro virtuale dovrà adattarsi a questa doppia istanza di leggibilità e diversificare, in conseguenza, finalità e operazioni.

Dal punto di vista metodologico, può risultare utile suddividere l’operazione del restauro virtuale di un manoscritto in quattro fasi operative successive : l’acquisizione digitale ; la pulitura virtuale, con la quale si corregge l’immagine acquisita sino a farla aderire il più fedelmente possibile alla pagina originale; la ricostruzione cromatica, che è la serie degli interventi di restauro che possono essere fatti sulla copia digitale del manoscritto servendosi di appositi applicativi grafici ; e, infine, l’archiviazione elettronica, per consentire la conservazione e la consultazione delle immagini restaurate.

>> suite de l'article : 2. Le fasi operative del restauro virtuale (Eugenio Staltari)



[1].  Il restauro virtuale è stato addirittura definito un ossimoro, dal momento che non si dà restauro, in senso proprio, senza intervento materiale sull’originale ; per un’ottima sintesi del dibattito degli ultimi anni, limitatamente all’Italia, si potrà vedere l’articolo di Daniela Moschini, « Restauro virtuale. La tecnica per il recupero digitale delle informazioni nascoste », in Kermes. La rivista del restauro, n. 41, 2001, pp. 45-54.

[2]. L’aggettivo «iconologico», si sostiene, avrebbe il vantaggio di spostare l’attenzione sull’immagine e di indicare, in modo più appropriato linguisticamente, che le operazioni del restauro virtuale avvengono sull’immagine digitale dell’opera, più che sull’opera stessa ; è questa la proposta di Domenico Bennardi, consulente del Centro di Studi Informatici per l’Arte di Firenze (Il Restauro Virtuale tra teoria e metodologia, contributo consultabile on-line all’indirizzo http://bennardi.freeweb.supereva.it/restVir.htm).

[3]. Un bilancio del rapporto tra i progetti di digitalizzazione di manoscritti e la scienza paleografica è stato recentemente tracciato da Marc Smith, « Numérisation et paléographie », in Le médiéviste et l’ordinateur, n. 40, 2001, p. 9-16 ; di « restauration virtuelle » si parla, in particolare, alla p. 10.

[4]. Per questi pochi cenni storici, cfr. Marcello Morelli, Dalle calcolatrici ai computer degli anni Cinquanta. I protagonisti e le macchine della storia dell'informatica, Milano, 2001.

[5]. Cesare Brandi, Teoria del restauro, Torino, 1963 (19772).

[6]. Gli Atti del convegno sono raccolti nel volume Metodo e scienza: operatività e ricerca nel restauro, a cura di Umberto Baldini, Firenze, 1982.

[7]. P. Aguzzi – E. Mello – B. Pianzola, «L’uso del calcolatore negli studi scientifici sulle opere d’arte», in Metodo e scienza, cit., p. 325-326.

[8]. V. Cappellini, G. Benelli, C. Conese, E. Del Re, «Il calcolatore per le opere d’arte», in Metodo e scienza, cit., p. 327-332.

[9]. Metodo e scienza, cit., p. 325.

[10]Ibidem, p. 327.

[11]. Umberto Baldini, Teoria del restauro e unità di metodologia, 2 voll., Firenze, 1978-1981.

[12]. Ornella Casazza, Il restauro pittorico nell’unità di metodologia, Firenze, 1981 ; si vedano, in particolare, le p. 76-79.

[13]. Giuseppina Perusini, Il restauro dei dipinti e delle sculture lignee. Storia, Teorie e Tecniche, Udine, 1985 (19942).

[14]Ibidem, p. 151.

[15]Dante, Par. I, 34.

[16]. Per un quadro esauriente dello sviluppo di applicazioni digitali e telematiche nel settore dei beni culturali, si vedrà utilmente : Bruno Fadini – Carlo Savy, Informatica per le scienze umane, Milano, 1999 ; in particolare, il cap. XIV, La catalogazione dei Beni Culturali, p. 239-270, e il cap. XV, Applicazioni nel settore dei Beni Culturali, p. 271-280.

[17]. Cf. G. Perusini, Il restauro dei dipinti, cit., p. 81.

[18]. Ibidem, p. 81-82.

[19]. « Tale principio è forse la più importante acquisizione del restauro negli ultimi anni e purtroppo una delle più disattese nel passato (e in molti casi anche oggi) », ibidem, p. 83.

[20]Ibidem, p. 82-83.

[21]. Per approfondimenti relativi a questa tematica, che esula dal presente studio, cf. Enrico Menduni, Educare alla multimedialità. La scuola di fronte alla televisione e ai media, Firenze, 2000.

[22]. Esperienza significativa in questa direzione è il progetto « Restauro virtuale » della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (per un breve profilo degli obiettivi e della metodologia seguita, si potranno vedere i materiali raggiungibili on-line all’indirizzo :
http://www.bncf.firenze.sbn.it/progetti/Restauro_Virtuale/prehome.htm.

[23]. Cf. Guglielmo Cavallo (a cura di), Libri e lettori nel Medioevo. Guida storica e critica, Bari, 1977 (20004). Il curatore vi insiste, in particolare, alle p. ix-xi dell’introduzione, toccando temi sviluppati poi con maggiore ampiezza nel saggio di Armando Petrucci, «La concezione cristiana del libro fra vi e vii secolo», p. 3-26.

[24]. Cf. Maria Luisa Porzio Gernia, Valeria Lomanto, Foni, fonemi, grafemi, Torino, 1983, p. 121-124.


 

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